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Un Paese, una storia, un silenzio. Israel, terra promessa, confine stabile tra mondo arabo e giudaismo. Ma sotto la sua superficie inquietante, non sempre conviene guardare.
Al mattino, su Tayelet, il lungomare di Tel Aviv, i ragazzi con le tavole da surf si lanciano nella sabbia bianca delle spiagge. I suoni di Mahame Yehuda, lo shuk di Gerusalemme, ancora vuoto di turisti dopo l'assalto del 7 ottobre, risuonano ancora nel silenzio.
Lì, il muro del pianto, simbolo del dolore e della perdita, è stato il centro della liturgia ortodossa che ha unito il popolo ebreo in preghiera e riflessione. E i bar Mitzvah di giovani ragazzi, entrati nella vita religiosa responsabile a 13 anni, sono un ricordo vivente della forza del popolo ebraico.
Ma poi c'è Sderot, la città che non ha smesso di aspettare. Ora vuota e silenziosa, dove i 27.000 abitanti hanno lasciato le loro case per non tornare mai più. Il governo israeliano vuole ricordare il mondo dell'inumanità subita dal Paese. Ma quanti morti israeliani da annoverare?
Lì, il confine elettrificato lungo il border è un simbolo di disuguaglianza. Il deserto del Negev, dove si trovava la città, è stato teatro di una storia di dolore e sangue solo due anni fa con lo sfortunato Nova festival. E le foto dei ragazzi uccisi, messaggi, ninnoli e preghiere che adornano questo spazio sono un ricordo del 7 ottobre.
Le migliaia di civili israeliani morti sotto le bombe a Gaza non hanno trovato la loro voce. Solo silenzio. Le donne, i bambini, gli anziani, tutti uccisi nella stragrande massa di vittime innocenti.
A Gerusalemme, la Knesset e il Parlamento israeliano si affollano di gente che deve ricordare la propria voce. Ogni volta che è richiesta di indossare le divise militari rischia di perdere il lavoro e di essere segnato dai traumi.
Il giovane che aspetta un amico lungo Tayelet, è l'istantanea di un Paese perennemente sulla difensiva. Ma sotto la sua facciata di movida e vita notturna, c'è il peso della storia e della memoria.
Davanti alla sede del Parlamento, le risorse militari si affollano. E là fuori, l'università e gli istituti scolastici che offrono l'insegnanza come una forma di resistenza contro i muri e le barriere.
Al mattino, su Tayelet, il lungomare di Tel Aviv, i ragazzi con le tavole da surf si lanciano nella sabbia bianca delle spiagge. I suoni di Mahame Yehuda, lo shuk di Gerusalemme, ancora vuoto di turisti dopo l'assalto del 7 ottobre, risuonano ancora nel silenzio.
Lì, il muro del pianto, simbolo del dolore e della perdita, è stato il centro della liturgia ortodossa che ha unito il popolo ebreo in preghiera e riflessione. E i bar Mitzvah di giovani ragazzi, entrati nella vita religiosa responsabile a 13 anni, sono un ricordo vivente della forza del popolo ebraico.
Ma poi c'è Sderot, la città che non ha smesso di aspettare. Ora vuota e silenziosa, dove i 27.000 abitanti hanno lasciato le loro case per non tornare mai più. Il governo israeliano vuole ricordare il mondo dell'inumanità subita dal Paese. Ma quanti morti israeliani da annoverare?
Lì, il confine elettrificato lungo il border è un simbolo di disuguaglianza. Il deserto del Negev, dove si trovava la città, è stato teatro di una storia di dolore e sangue solo due anni fa con lo sfortunato Nova festival. E le foto dei ragazzi uccisi, messaggi, ninnoli e preghiere che adornano questo spazio sono un ricordo del 7 ottobre.
Le migliaia di civili israeliani morti sotto le bombe a Gaza non hanno trovato la loro voce. Solo silenzio. Le donne, i bambini, gli anziani, tutti uccisi nella stragrande massa di vittime innocenti.
A Gerusalemme, la Knesset e il Parlamento israeliano si affollano di gente che deve ricordare la propria voce. Ogni volta che è richiesta di indossare le divise militari rischia di perdere il lavoro e di essere segnato dai traumi.
Il giovane che aspetta un amico lungo Tayelet, è l'istantanea di un Paese perennemente sulla difensiva. Ma sotto la sua facciata di movida e vita notturna, c'è il peso della storia e della memoria.
Davanti alla sede del Parlamento, le risorse militari si affollano. E là fuori, l'università e gli istituti scolastici che offrono l'insegnanza come una forma di resistenza contro i muri e le barriere.