La trentesima conferenza sul clima, la Cop30, è in arrivo a Belem, alle porte della foresta amazzonica, con un'atmosfera pesante e una liturgia della battaglia contro il riscaldamento globale che sembra non cambiare molto. Da 23 anni, le nazioni si impegnano a fornire piani per tagliare le emissioni nocive, ma la realtà è diversa.
Il grande obiettivo, arrestarsi al di sotto dei 2 gradi centigradi rispetto all'era pre-industriale, non sembra più possibile. Il dubbio che sia sceso il freddo e l'idea che le nazioni si stanno impiccando alla corda del Green Deal hanno contribuito a questo risultato. La vecchia Europa, che era stata la prima ad iniziare a prendere misure per contrastare il cambiamento climatico, ora si trova con un ruolo scomodo.
Il cerino del cosiddetto primo mondo, controllato dalla Cina, è quello che sta accendendo le emissioni di CO2, responsabile di oltre il 30% delle emissioni mondiali. La tecnologia delle energie rinnovabili, trasformata in un grande business e una notevole leva geopolitica, non ha aiutato a ridurre le emissioni.
I piani per combattere il cambiamento climatico sembrano inadeguati, poiché le emissioni di metano legate alle attività umane sono ai massimi storici con tendenza alla crescita. Gli Stati Uniti tornano a trivellare e la Cina usa per lo più il carbone per produrre i pannelli solari e le turbine dell'eolico.
L'Europa, che contribuisce all'inquinamento del pianeta per un modesto 6 per cento o poco più, sta cercando di tenere insieme gli impegni presi con la competitività in profonda crisi. La battaglia contro il cambiamento climatico non è una questione di convertirci tutti quanti al negazionismo, ma di prendersi atto che il catastrofismo ambientale non serve a nulla se non ad aumentare il senso di impotenza e la frustrazione.
La lezione delle Cop, da una a trenta, è che il mondo non è in grado di guardare troppo avanti. E quando lo fa, è per eludere il problema, non per risolverlo. Il futuro è incerto e noi subiremo altre mutazioni: guerre, paci, crisi energetiche o innovazioni rivoluzionarie.
Il grande obiettivo, arrestarsi al di sotto dei 2 gradi centigradi rispetto all'era pre-industriale, non sembra più possibile. Il dubbio che sia sceso il freddo e l'idea che le nazioni si stanno impiccando alla corda del Green Deal hanno contribuito a questo risultato. La vecchia Europa, che era stata la prima ad iniziare a prendere misure per contrastare il cambiamento climatico, ora si trova con un ruolo scomodo.
Il cerino del cosiddetto primo mondo, controllato dalla Cina, è quello che sta accendendo le emissioni di CO2, responsabile di oltre il 30% delle emissioni mondiali. La tecnologia delle energie rinnovabili, trasformata in un grande business e una notevole leva geopolitica, non ha aiutato a ridurre le emissioni.
I piani per combattere il cambiamento climatico sembrano inadeguati, poiché le emissioni di metano legate alle attività umane sono ai massimi storici con tendenza alla crescita. Gli Stati Uniti tornano a trivellare e la Cina usa per lo più il carbone per produrre i pannelli solari e le turbine dell'eolico.
L'Europa, che contribuisce all'inquinamento del pianeta per un modesto 6 per cento o poco più, sta cercando di tenere insieme gli impegni presi con la competitività in profonda crisi. La battaglia contro il cambiamento climatico non è una questione di convertirci tutti quanti al negazionismo, ma di prendersi atto che il catastrofismo ambientale non serve a nulla se non ad aumentare il senso di impotenza e la frustrazione.
La lezione delle Cop, da una a trenta, è che il mondo non è in grado di guardare troppo avanti. E quando lo fa, è per eludere il problema, non per risolverlo. Il futuro è incerto e noi subiremo altre mutazioni: guerre, paci, crisi energetiche o innovazioni rivoluzionarie.